26/10/13

La normalità antecedente



Venerdì 25 ottobre 2013, Cosenza-Foggia 1-1

Dev’essere lo stesso per gli spazzini.
Dopo che passi gran parte della tua vita tra i vicoli, a riempire buste di lerciume, dimentichi che al mondo esistono pure le persone pulite. È una questione di prospettiva. Così, mentre l’ispettore brizzolato col cappello ci parla sforzandosi di mantenere la calma, e placidamente ci inviti a non farci “daspare”, ci sembra tutto assurdamente normale. Normale. Che dietro agli uomini in divisa brillino le luci dei fari, che oltre questo cancello metallico e il conseguente terrapieno di cemento armato, vi sia un settore ospiti. E un grande prato verde dove nascono speranze. Abbiamo completamente rimosso che un tempo era questo il motivo per cui si viaggiava. Si comprava un pezzo di carta da un omino chiuso in un cubicolo, come un prete al confessionale, e si varcavano velocemente gli accessi. E, una volta sui gradoni, si cantava, si sudava, si lottava. Per la maglia. O per la squadra, quando ancora la maglia non si portava. Adesso, questo onesto servitore dello Stato ci sta illustrando, con la cura di un buon padre che spiega il mondo a dei bambini neanche tanto discoli, che per il nostro bene è opportuno ruotare il muso delle nostre quattro macchine e puntarlo verso casa. Che di mezzo ci siano 60 o 600 chilometri, poco cambia. E a noi, che abbiamo sentito questo discorso altre tre volte in poco meno di due mesi, sembra già normale. Se non logico. Gli esseri umani si adeguano in fretta ai mutamenti. Dev’essere stato così anche per le specie sopravvissute alla glaciazione. Che ti guardi intorno e non vedi mammut e dinosauri, dopo che per una vita sono stati lì. E dopo cinque minuti, ti abitui. La vita va avanti.

In un parcheggio di un centro commerciale. Roba da Wolverhampton. La scelta tra due direttrici di volo. Una lunga e dritta, l’altra più breve e pittoresca. Anche nei saliscendi e nei lavori in corso. Optiamo per la seconda, ma ricorrendo al voto di fiducia. Tangenziale a uscire. Puntiamo sulla Basilicata più profonda. Abbiamo una scorta di birre a fare da apripista al più classico dei William Lawson’s. Ma siamo senza borse frigo. Così, l’accendino che funge da stappa bottiglie è costretto ad un superlavoro. Ascoli, Candela. San Nicola di Melfi. Il Foggia gioca di venerdì. Al covo, per stasera, preparano dolci e rum. È incredibilmente affascinante sapere di essere in luoghi diversi e concentrarsi, con la stessa dedizione, sui medesimi colori. Contribuendo a spingere quella palla in porta come e più degli undici in campo. Era così ai primissimi tempi del gruppo. O quando la brigata bolognese ci raccontava delle partite viste dal cinese. Seguire questa squadra di emigranti ed esuli sparpagliati nei bar di mezzo mondo, è come per due innamorati – nell’era pre-Skype – fissare la stessa stella. Noi siamo dei privilegiati. Noi ancora possiamo cullare il sogno di vederla dal vivo, quella maglia. Solitamente indossata da cessi col pedigree da cessi. No, non si dice così. S’è ripresa, questa squadra. Ha vinto in casa e poi a Messina, ha pareggiato con l’Ischia dopo aver dominato un tempo. Oggi va a far visita alla capolista. Speriamo gradisca. Ma in cuor nostro sappiamo di avere le stesse possibilità di entrare che avevamo sul traghetto per la Sicilia. Rionero, Istinto brigante, la sagoma solida di Castel Lagopesole. Prima sosta per la pipì a undici chilometri da Potenza. Riempiamo i plastici calici di whiskey e osserviamo. È un discreto plotone, questo che si allarga sul piazzale. La nostra, però, constatiamo non senza una punta d’amara tristezza, è la macchina più anziana. Trentacinque anni di media. Una cosa da deformare il ghigno al disgusto. C’è gente qua in mezzo che non lo conosceva neppure a Zuzzurro! Buttiamo giù la nostra razione di veleno, e ripartiamo. Titograd. Brienza. La nostra ram ci comunica impressioni di ottobre. Ci siamo già stati qui. Era il 2009. E tutto, dal cielo plumbeo al colore del pietrisco, ci sembra intatto. Sembra quel mattino. Una vita fa. L’orrore. Il WL è finito! È un attimo. La nostra vettura lascia sfilare il piccolo corteo. Le quattro porte si spalancano come per un assalto al portavalori. Tutti giù. E gli abitanti del mezzo si immergono fino al bacino nel frenetico viavai della Quinta Avenue. Ad un barista si spiega che il calcio non è più quello di una volta. Non è “quel che proviamo”. Mentre qualcuno punta una Sigma che, in realtà, è un vivaio. Dio benedica sempre quei frangenti in cui ci si perde. Perché ritrovarsi è strano. Nell’abitacolo ricomposto fanno capolino, nell’ordine, un Bellmore impacchettato e un pizzico di vanagloria. “La ragazza del negozio mi ha lasciato il suo numero”, “Davvero? Te l’ha scritto di nascosto?”,  “No, è sul bollino”. Sala Consilina si mostra a sinistra. Fa schifo come ogni volta. Calabria. La Sa-Rc sembra sgombera e lineare. Sembra un’autostrada. Il nuovo nettare apre dibattiti e comparazioni. Ad un certo punto, urlano tutti. E nessuno ascolta nessuno. Si spazia dalla Supporter Card agli Scotch, da Wikileaks al turismo religioso. Una babele al cui confronto i System of a down che piazza il pilota suonano docili alle nostre orecchie come la Royal Philharmonic. Ci ricompattiamo, senza essere venuti a capo di nulla, a 70 chilometri dalla meta. È buio, ormai. A detta dei navigatori che ci mobbizzano, arriveremo alle 20:11.

Cosenza , vista da qui e a quest’ora, sembra Potenza. Se non proprio Catanzaro. Svincoli a dismisura, palazzoni intesi come nuclei abitativi a sé stanti, isolati e conclusi. Eppure la ricordavamo bella. Le luci del San Vito sono fredde. Eravamo custodi di una memoria differente. Persino l’ingresso al settore. Ma erano altri tempi. Era la normalità precedente. Dai finestrini ci è passato accanto il botteghino. Le luci nel loculo di cemento comunicavano apertura. Il plotoncino di agenti che ci viene incontro e chiude a doppia mandata il cancello, tutt’altro. Il dialogo col dirigente è breve poco dinamico. Non resterà alla storia delle trattative. Più o meno come la Conferenza di Monaco. Noi diciamo quel che diciamo sempre, che vorremmo entrare a vedere una partita di pallone. Pagando, s’intende. Quello si stringe nelle spalle e risponde che no, non è possibile. Proviamo un paio di carte a sorpresa, ma non c’è sorpresa che tenga quando la controparte non è disposta a giocare. Quindi vabbé, ciao. La foto canonica, di spalle, con le pezze. No, non è una nuova moda. Noi non viaggiamo per riempire un album. O, peggio, ritenerci migliori di altri che non si mettono in posa fuori dai settori inviolabili. Se fosse questo il nostro intento, saremmo da ricovero coatto. Noi ci muoviamo con la speranza incrollabile di riuscire a varcare quelle soglie e vedere i nostri crossare, lisciare, spazzare l’area. Come certi malati terminali che organizzano le vacanze estive. Per far si che un briciolo di normalità antecedente seguiti ad imporsi nelle nostre esistenze. Plasmate anche su questo. E se il brivido – oggi come oggi – viene dalla mezzeria che finisce sotto la carrozzeria e dai chilometri che si inseguono sui cartelli, allora non badiamo a spese. Anche se fa male ammettere che così è riduttivo. Che sembrano lontani anni luce i tempi in cui allo stadio si poteva entrare. Ma è quanto di meglio abbiamo. E lo conserviamo gelosamente. Circumnavighiamo la città, rassegnati all’evidenza. C’è la diretta Raisport. Direzione Nord. La prima uscita ci annuncia che siamo prossimi ad un posto che si chiama Montalto Uffugo. Anche questa è poesia. Sapere che esistono luoghi sulla Terra che passano, in un clic della freccia e per una coincidenza del fato, dall’assoluta insipienza alla piena familiarità. Poesia. Una volata e ci ritroviamo, senza fiato, faccia a faccia col gestore di una pizzeria. Che stava chiudendo. C’è una saletta, a sinistra. Un televisore. Spento. Il pizzaiolo garantisce che anche loro stavano vedendo la partita. Ma non c’è bisogno di accattivarci. Siamo affamati e non desideriamo altro che mangiare. E vedere il Foggia. L’ispettore, allo stadio, ci aveva garantito che si fosse sul due a zero per il Cosenza. Come se fosse bastato quello, un risultato avverso, a farci desistere. Uno che ha paura di perdere non tifa per il Foggia, amico. Ordiniamo quattro, forse sei pizze con la nduja. È appena cominciata la ripresa. Uno a zero per loro. Pizze al tavolo. “Hai dell’olio piccante?”. Il pizzaiolo, che è calabrese e su queste cose non scherza, risponde (piccato): “Perché? Non è già piccante?”. Forse abbiamo fatto una gaffe, ma guai a tirarsi indietro: “No”. E piovono peperoncini, grandi come fragole. È una mattanza. L’urlo del pari su rigore è straziante. Sembra dire: sono qui a due passi, non possono sentirci. Anche nella grappa c’è il peperoncino. Offre la casa. A cerchio, brindiamo. Al pari in casa della capolista. Alla nostra forza d’animo. Alle battaglie perse. Agli altri al covo e ai foggiani che, in mezzo mondo, hanno urlato come noi al pareggio. Ai chilometri che ci separano da casa e a quelli che faremo la prossima volta. Alle rossonere. Il tempo di entrare in macchina. E resta sveglio solo l’autista. Ma è tardi per portare indietro le lancette del tempo e brindare anche a lui. Si potesse fare, torneremmo indietro all’epoca in cui si poteva comprare un pezzo di carta da un tizio chiuso in un cubicolo. E si poteva vedere il campo di gioco.

 

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