19/12/14

"Tu, stavolta, non vieni"


Un po’ l’aria strana l’avevo notata. E’ come se avessi fiutato qualcosa. La settimana era finita, i ciottoli di Via Arpi e la Giovanni Pascoli erano alla spalle. Oltre i tre archi delle mie ansie da scolaro. Sarebbero tornati a rapirmi il pensiero solo a tarda sera, alla domenica. Quando la Clerici di “Domenica Sprint” avrebbe dato appuntamento alla prossima puntata, spazzando via quel mondo sospeso che era il fine settimana Un altro lunedì, da lì a poco, sarebbe venuto a prenderti, a strapparti dal tepore di una casa che abitavi da un mese e mezzo e t’avrebbe riportato sui banchi di scuola. Ultimo baluardo prima della campanella, il profumo del krapfen alla crema con amarena della pasticceria all’angolo delle otto del mattino. Di ogni mattino.
Sabato 9 marzo, però, c’era qualcosa che non andava. A casa, il babbo parlava poco e l’eco della vittoria al Celeste di Messina sembrava sopito. Avevo 8 anni, l’album della Panini e il calendario tascabile di cartone sempre tra le mani. Poco più di un amuleto, sapevo a memoria il cammino di un Foggia che s’accingeva a vincerlo quel campionato di B.
I grandi, intesi come i cugini grandi con comitiva annessa non parlarono d’altro in quella settimana. Francesco e Guido quotidianamente “spacciavano” voci che, già di seconda o terza mano, rimbalzavano al “quarto”. Il “Quarto” era la nostra contrada, Via Spalato, via Quercia e Vico dei Conciatoi, il quartier generale, il campo base, la capitale della nostra nazione.
Voci di “allerta” portati oltre i livelli di guardia, di risse, di rivalità ataviche da rinnovare, di sassaiole che furono e che sarebbero state. Rivisitazioni e rievocazioni in chiave romanzata di barelle e di tumulti nella nord, nel derby dell’Immacolata di cinque anni prima.
Riferivo a mio padre che mi invitava a non prendere in considerazione quelle voci, a lasciar perdere chi mi raccontava fandonie, perché “allo stadio si tifa per il Foggia senza pensare agli altri”. Ma mio padre non era quello di sempre. Era distaccato, sfuggiva l’argomento, si defilava, non ne voleva parlare.
Pistella, tale Pistella, era lo spauracchio che agitava la notte della vigilia. All’indomani ero pronto per l’evento. Il giubbino verde con Mickey Mouse sulla schiena, il calendarietto tra le mani. Ero prontissimo per il mio primo Foggia-Barletta. Avrei come al solito, inalato il fumogeno, chiuso gli occhi sentendoli bruciare, risposto “Si” alla domanda “Ci vedi?” di mio padre. Avrei, come al solito, inneggiato a Franco Mancini mentre lui avrebbe salutato la Nord, poco prima del via alle ostilità.
Ma dopo il fugace e silenzioso pasto domenicale, su quel bimbo di 8 anni si abbatté il più cinico e mostruoso dramma. Di quelli che, per quello che eri, ti fanno perdere il respiro e ti fanno piangere ininterrottamente. Nella mia infanzia, mi dicono, non mi sono mai incapricciato e non ho mai sbattuto i piedi dinanzi ai rifiuti, alle negazioni, ai divieti e ai “niet”. Mai preteso un giocattolo incondizionatamente, mai piantato grane, mai rotto i coglioni oltre un certo limite. Ma quella che stava per arrivare, era una mazzata tremenda.
A un’ora e mezza dal derby, mio padre gettò la maschera: “Antonio, con mamma abbiamo deciso che, per oggi e solo per oggi, tu la segui qua. Mamma ti sistema la radio. Allo stadio, è troppo pericoloso”. Capii subito che non c’era nulla da fare, che la sentenza era inappellabile. Nella Opel verde di zio Leonardo, quella ribollente delle passione dell’immediata vigilia che avrebbe finito la corsa come al solito a San Giuseppe Artigiaono io, stavolta, non ci sarei stato.
Francesco e Guido, nella cameretta nuova di zecca, provarono a consolarmi. Vanamente. Simularono un Foggia-Barletta al Subbuteo. Finiva 2-1 e segnava Pistella. Poi andarono e dinanzi a me si spalancò l’abisso.
Ascoltai alla radio la cronaca di quella gara. Strinsi, rabbioso, il pugnetto al gol di Rambaudi, ripresi a piangere al sinistro su punizione di Signori. Non accadde nulla di pericoloso alla stadio, solo qualche pietra.
Mio padre evitò di parlarmi di calcio per i due giorni successivi. Non se la sentiva, forse era il suo modo di chiedermi scusa. Sapeva, e sa, di averla fatta grossa.
P.s: A quella domenica di marzo ripenso spesso. Sono convinto che quel giorno, la tristezza si sia servita del calcio, della mia più grande passione, per palesarsi. Per la prima volta, quasi teneramente, nella mia vita. 
Sabato c’è Foggia-Barletta. Non è un caso. Lo so.

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